Il tumore della prostata ha origine dalle cellule presenti all'interno della ghiandola, la prostata, che iniziano a crescere in maniera incontrollata. Questa ghiandola è presente solo negli uomini, si trova di fronte al retto ed ha il compito di produrre il liquido seminale rilasciato durante l’eiaculazione. Gli ormoni, in particolare quelli maschili, come il testosterone, ne influenzano la crescita. Generalmente, il tumore della prostata ha una crescita lenta, e non si diffonde al di fuori della ghiandola (detto tumore a basso rischio). Tuttavia, esistono delle forme più aggressive, nelle quali le cellule tumorali invadono velocemente i tessuti circostanti e si diffondono anche ad altri organi (tumore ad alto rischio).
In Italia il tumore della prostata è attualmente la neoplasia più frequente nella popolazione maschile e rappresenta circa il 20% di tutti i tumori diagnosticati nell’uomo a partire dai 50 anni di età. Fortunatamente, esso occupa il terzo posto nella scala della mortalità, con una stima di sopravvivenza attestata al 92% a 5 anni dalla diagnosi, una percentuale tra le più alte riscontrate in caso di tumore, soprattutto se si tiene conto dell'avanzata età media dei pazienti.
Solitamente i sintomi appaiono solo quando la malattia ha raggiunto una fase avanzata. Essi comprendono prevalentemente sintomi urinari come l’ematuria, ostruzione della vescica o dell’uretere e talvolta dolori ossei.
Per anticipare la diagnosi possono essere effettuate diverse indagini cliniche. Primo fra tutti, l’utilizzo del test del PSA (Antigene Prostatico Specifico), eseguito con un semplice prelievo di sangue. Il test misura una sostanza prodotta dalla ghiandola prostatica che serve a fluidificare il liquido seminale. È consigliato effettuare questo esame generalmente dopo i 50 anni di età, ed in caso di familiarità dopo i 40 anni di età. Tuttavia, un aumento dei livelli di PSA può essere causato anche da condizioni non cancerose. Pertanto, ulteriori test diagnostici quali l’esplorazione rettale, la biopsia, e le indagini radiologiche sono necessari per formulare una diagnosi definitiva.
Oggi sono disponibili diverse tipologie di terapie per il tumore della prostata, ciascuna delle quali presenta benefici ed effetti collaterali specifici. Sulla base delle caratteristiche del paziente e del tipo di tumore (cioè dopo una accurata diagnosi istologica), della dimensione e della localizzazione del tumore, lo specialista clinico sceglie la strategia più idonea da seguire: 1) aspettare attuando la cosiddetta “sorveglianza attiva”; 2) fare un intervento chirurgico o radioterapico; 3) associare all’intervento la chemioterapia.
Nei casi di malattia con un basso rischio di sviluppare una malattia metastatica, anche in funzione dell’età del paziente, viene attuata la sorveglianza attiva, ovvero uno stretto monitoraggio dei parametri chimico-clinici (inclusa la biopsia prostatica) e radiologici che permette di vedere eventuali cambiamenti che consigliano di intervenire per eliminare il tumore. L’atteggiamento della sorveglianza attiva per un tumore appare bizzarro ma è giustificato dal fatto che non sempre il tumore della prostata evolve velocemente verso forme aggressive.
Quando il tumore è pericoloso, ma ancora localizzato, la scelta terapeutica più utilizzata è la chirurgia. I progressi in campo tecnologico, attraverso l’utilizzo di robot e laparoscopia (piccoli tagli sulla pancia da dove vengono inseriti gli strumenti per fare l’intervento), rendono questa opzione meno invasiva della operazione chirurgica classica. In alcuni casi la scelta può ricadere su altre due opzioni di terapia: la radioterapia e la brachiterapia. Entrambe le opzioni si avvalgono dell’utilizzo di radiazioni che irradiano il tumore e lo uccidono. Con questi interventi è cruciale non solo distruggere/asportare tutte le cellule tumorali ma anche non danneggiare i nervi che vanno al pene e permettono l’erezione (in caso contrario il paziente diviene impotente). Questi nervi, infatti, passano proprio sulla superficie esterna della prostata.
Quando il tumore è in stadio avanzato, la sola chirurgia non basta per curare la malattia e, dopo l’intervento chirurgico o radioterapico, è necessario aggiungere una terapia farmacologica. È anche possibile che dopo un intervento, in cui si è convinti di avere asportato tutte le cellule tumorali, il tumore torni dopo anni e si manifesti a distanza (non è colpa del chirurgo, ma del fatto che cellule tumorali erano uscite dalla prostata prima dell’intervento ed erano andate in un altro tessuto – l’osso, ad esempio). Per questo motivo chi si è operato di tumore alla prostata deve continuare a valutare i livelli di PSA almeno una volta all’anno.
Visto il ruolo importante del testosterone, ormone maschile che stimola la crescita del tumore della prostata, la terapia ormonale, nota anche come terapia di deprivazione androgenica, è una delle opzioni terapeutiche più utilizzate nella malattia in stadio avanzato o per ridurre il rischio di recidiva dopo intervento chirurgico. Questa terapia ha lo scopo di evitare che il testosterone stimoli la crescita delle cellule tumorali. Molte volte le cellule tumorali senza il “nutrimento” del testosterone muoiono (in questo caso si parla di tumore ormono-sensibile).
La terapia anti-androgenica si può fare in due modi: 1) usando farmaci che inibiscono i fattori che stimolano le cellule a produrre testosterone (agonisti dell'LHRH, antagonisti dell'LHRH) o 2) usando farmaci che impediscono alle cellule di produrre il testosterone o che impediscono al testosterone di funzionare (antiandrogeni). Gli agonisti dell'LHRH (leuprorelina, triptorelina, buserelina, goserelina) bloccano la produzione dell’ormone luteinizzante (LH) con cui l'ipofisi stimola l'attività dei testicoli, bloccando la sintesi del testosterone. Si ottiene così la cosiddetta castrazione chimica o farmacologica. Gli antagonisti dell’LHRH e antagonisti del GnRH (degarelix) fanno la stessa cosa. Questi farmaci vengono spesso dati in combinazione, per minimizzare gli effetti collaterali che possono comportare vampate, aumento di peso, osteoporosi, perdita di massa muscolare e stanchezza. Per quanto riguarda gli anti-antiandrogeni, la bicalutamide è di “vecchia generazione”, mentre quelli di nuova generazione sono l’abiraterone acetato, l’enzalutamide e l’apalutamide.
L’abiraterone acetato è un inibitore selettivo della sintesi degli androgeni e nello specifico agisce bloccando il CYP17, un enzima chiave nella sintesi di testosterone. L’enzalutamide e l’apalutamide bloccano il recettore degli androgeni (AR) o la sua funzione all’interno della cellula.
Purtroppo, talvolta, dopo anni di terapia anti-androgenica alcune cellule tumorali “imparano” a proliferare in maniera indipendente dalla stimolazione del testosterone e non rispondono più a questa terapia. In questo caso possono essere utilizzati farmaci anti-tumorali come i taxani (ad esempio docetaxel o cabazitaxel), che alterano il citoscheletro delle cellule tumorali, determinando la loro morte (leggi anche Tumori: origini della chemioterapia antitumorale e la sua evoluzione). Negli ultimi anni, le opzioni terapeutiche sono aumentate in modo considerevole e includono, ad esempio, l’impiego degli inibitori di PARP o la terapia radiometabolica. Recentemente, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato la rimborsabilità di olaparib, appartenente alla classe dei PARP inibitori, nel trattamento dei pazienti affetti da tumore della prostata metastatico, resistente alla castrazione e con mutazione dei geni BRCA1/2, in progressione dopo terapia anti-androgenica.
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